Chest of Spooks 3 – 10 Animated Horror Films Part 2

L’horror ha avuto la capacità, nel corso del tempo, di ibridarsi con tutti gli altri generi cinematografici, dalla fantascienza, al thriller, fino addirittura alla commedia; non stupisce più di tanto, quindi, che la poetica e lo stile horror abbiano contaminato anche l’animazione. Essendo l’animazione un genere dove tutto è possibile perché tutto viene creato ex-novo dalla mente e dalla matita degli animatori, l’horror ha trovato in questo genere un terreno molto fertile nella sua ricerca e rappresentazione delle paure più angoscianti delle persone, potendo facilmente sbizzarrirsi negli effetti visivi e in storie sempre più surreali.

Purtroppo, essendo l’animazione, soprattutto nel nostro contesto occidentale, considerato un genere riservato ai bambini, la maggior parte di questi capolavori non raggiunge i nostri cinema, o lo fa solo all’interno di proiezioni evento. Questo fa sì che la maggior parte dei film di cui si parla in questo articolo, al contrario del primo, in cui si trattava di opere decisamente mainstream, siano per lo più sconosciute al grande pubblico, che continua ad avere dell’horror animato una conoscenza piuttosto ristretta, e circoscritta generalmente al solo Tim Burton.

Ovviamente non è così, e spero, con questi dieci film, di darti qualche buon suggerimento di visione nel caso decidessi di esplorare ulteriormente questo ricco e interessante capitolo della storia dell’animazione.

Cominciamo.

1) Frankenweenie. Film in stop-motion del 2012 diretto da Tim Burton, Frankenweenie recupera e rielabora un’idea originale che il regista aveva già realizzato in un cortometraggio live-action negli anni Ottanta. Il regista sposta la vicenda in un soleggiato sobborgo americano e arricchisce il legame indissolubile tra il creatore e la creatura con un sentimento di affetto assente in ogni altro adattamento del romanzo: con questi pochi, semplici accorgimenti, il materiale narrativo assume immediatamente tutto un nuovo potenziale pressoché illimitato, aprendosi a scenari e sviluppi innovativi e molto interessanti. Il personaggio stesso del protagonista subisce una trasformazione radicale e diventa uno degli aspetti più riusciti del film: Tim Burton ha attinto a piene mani dalla sua esperienza personale per la scrittura del suo protagonista, che diventa un normale bambino della provincia americana, molto portato per le scienze ma solitario e generalmente considerato bizzarro. Girato in bianco e nero in omaggio ai film della Universal, il film si presenta come un’antologia di elementi tratti dall’horror classico e sapientemente miscelati in modo da renderli invisibili, riconoscibili solo dal cinefilo attento, o, al contrario, spunti di parodia per la loro iconicità, come l’impossibile acconciatura di Elsa Lanchester ne La Moglie di Frankenstein del 1935, attribuita nel film ad una barboncina di cui si innamora il cagnolino Sparky. Frankenweenie è un perfetto esempio di recupero e rielaborazione della storia del cinema, un omaggio divertito e giocoso alla produzione horror adattata al nuovo contesto culturale e alla nuova trama sviluppata con rispetto e affetto, dimostrando la grande vitalità che le icone della paura possono avere ancora oggi nelle mani capaci di registi in grado di sfruttarne il potenziale senza snaturarne l’essenza.

2) L’Attacco dei Giganti. Questo è un caso un po’ particolare, dal momento che ci troviamo di fronte ad un lungometraggio realizzato rimontando le scene dell’omonima serie animata; tuttavia, dal momento che il film funziona alla perfezione (anche meglio della serie anime, secondo me) non mi sembrava giusto lasciarlo fuori, anche perché racconta una delle storie più terrificanti di questa selezione. Ambientato in un mondo distopico in cui i giganti dominano la Terra, gli uomini si sono rifugiati in città-fortezze per resistere agli assalti di questi mostri, che amano nutrirsi di carne umana. Un giorno, un gigante ancora più grande e forte del normale appare dal nulla e abbatte le mura che circondano la città, permettendo ai titani di penetrarvi e divorare i cittadini; per i protagonisti, giovani appena arruolatisi nel corpo di guardia, è la prima, vera occasione per combattere i mostri, e vendicare così tutte le vittime della loro malvagità. Il mostro come metafora dell’inspiegabile e del disumano raggiunge qui il suo apice: non si sa nulla dei giganti, delle loro origini e della loro natura, tutto ciò che si conosce è il minimo indispensabile per sapere come ucciderli, ma anche queste poche nozioni confuse sono state ottenute al prezzo di moltissime vite umane. Non c’è una razionalizzazione possibile nei confronti dei giganti: essi semplicemente esistono, e l’unica risposta possibile da parte dell’uomo è la fuga e la difesa interminabile nelle roccaforti che li proteggono, rifugio e prigione allo stesso tempo che hanno però soltanto lo scopo di rimandare l’inevitabile; le forze irrazionali della natura, che si manifestano nei colossali mostri del film, prima o poi avranno necessariamente ragione degli uomini e dei loro limitati mezzi. Fermi ad uno stadio selvaggio in cui la ragione non ha ancora ottenuto la supremazia sugli istinti, i giganti incarnano l’hic sunt leones di un mondo non ancora completamente domato dall’uomo, dominato dalle forze brutali ed inspiegabili di una natura che la scienza non riesce ancora a costringere tra le rassicuranti maglie della razionalizzazione. Come ogni rappresentazione dell’ignoto, dunque, i giganti sono pericolosi e inarrestabili assassini ghiotti di carne umana, di cui tuttavia non necessitano per sopravvivere: ciò che non si conosce finisce inevitabilmente per distruggere l’uomo, per inghiottirlo nella sua opera di distruzione che solo la conoscenza può fermare, come più volte affermato dai personaggi del film. Diretto con maestria e scritto in modo sorprendentemente lirico, rispetto all’anime il film de L’Attacco dei Giganti esalta la trama adrenalinica e le qualità cinematografiche della messa in scena, come le acrobazie sui tetti e i combattimenti contro i mostruosi giganti.

3) City of Rott. Dopo i classici e i mostri approdiamo ad un altro caposaldo dell’horror, ossia gli zombie, che oggi sembrano godere di una nuova giovinezza. City of Rott rielabora il mito degli zombi in maniera simile a quanto fatto da Edgar Wright in L’Alba dei Morti Dementi, realizzando una commedia surreale e grottesca. Realizzato in cut-out animation simulata al computer, la stessa tecnica di South Park, per intenderci, il film presenta un tipo di animazione tecnicamente molto approssimativa, per niente fluida e assolutamente non realistica: il senso della prospettiva è annullato, il movimento dei personaggi appena suggerito e la loro espressività ridotta al minimo. Tuttavia, trattandosi tuttavia di un film interamente scritto, diretto, animato, doppiato e, in generale, realizzato da un’unica persona, lo stile adottato è l’unico sufficientemente funzionale per permettere concretamente la realizzazione di un lungometraggio. City of Rott è la surreale storia dell’anziano Fred, che si aggira per la sua città invasa dagli zombi alla disperata ricerca di un nuovo paio di scarpe con cui sostituire quelle, ormai usurate, che porta ai piedi. Nato come cortometraggio, il film prosegue inesorabile come il suo protagonista, articolandosi in una serie di scene legate da una continuità molto blanda che si limita a variare i dettagli dei vari combattimenti tra gli zombi e Fred, il quale fa strage di morti viventi con il suo deambulatore. Quello di cui veramente il film parla in modo esplicito, seppur con ironia e sarcasmo, è il conformismo sfrenato e il rischio dell’omologazione. Per tutta la durata del lungometraggio, sugli sfondi campeggiano enormi cartelloni pubblicitari che invitano a uniformarsi nell’abbigliamento e nei gusti, nel comportamento e nell’ideologia, mentre, sotto i manifesti, passa lenta e stolida l’orda dei morti viventi, ogni traccia di personalità eliminata dall’azione dei parassiti e i volti, mangiati dalla decomposizione, indistinguibili l’uno dall’altro. Gli zombi diventano così un simbolo dell’estremizzazione della globalizzazione e dell’uniformità ideologica, sociale e dei consumi, sollevando un problema quantomai attuale nella società contemporanea.

4) Dead Space. Ancora zombi, questa volta nello spazio all’interno di una cornice squisitamente fantascientifica. Realizzato come prequel della saga di videogiochi, Dead Space si presenta come un film senza eccessive pretese salvo quella di intrattenere, rifiutando ogni chiave di lettura a favore dell’azione e della violenza, una posizione assolutamente legittima ma che, purtroppo, porta ad un film piuttosto dimenticabile. La trama è estremamente lineare, senza particolari colpi di scena a sconvolgere l’andamento della storia, che si basa quasi esclusivamente sul lungo combattimento contro i mostri che invadono l’astronave. Gli zombi, chiamati in questo film necromorfi, hanno ben poco della matrice mostruosa utilizzata negli altri film: di aspetto solo vagamente umanoide, i necromorfi hanno enormi fauci e lunghi artigli che fuoriescono dagli arti da insetto, sono veloci e dalla forza sovrumana; il tratto che li accomuna agli zombi è la fame di carne umana, che cercano di soddisfare divorando i membri dell’equipaggio. L’origine extraterrestre non è una novità dal momento che lo stesso La Notte dei Morti Viventi giustifica, frettolosamente, la resurrezione dei morti con delle radiazioni provenienti da una sonda di ritorno dal pianeta Venere. La paura per gli zombi si identifica quindi anche con il terrore di minacce provenienti dalle profondità dello spazio, in cui misteriose e pericolose entità aliene si preparano, in agguato, ad aggredire e distruggere la razza umana. Si tratta comunque di mere similitudini, dal momento che Dead Space è un film ben lontano dall’essere brillante come i suoi illustri predecessori per via della scarsa profondità dei personaggi e della trama decisamente convenzionale; il difetto capitale del film è quello di non essere stato in grado di sfruttare appieno la particolare ambientazione in cui si svolge la vicenda, e di non sviluppare gli spunti tratti dai classici del cinema dal vero, elementi che avrebbero potuto arricchire la narrazione e approfondire un’opera che si configura invece come un banale e prevedibile survival horror.

5) Dante’s Inferno. Oltre a Dead Space, anche il videogioco Dante’s Inferno ha generato una controparte animata, questa volta un completo adattamento della storia. Nonostante le sue premesse da blockbuster e la derivazione davvero poco illustre della storia, Dante’s Inferno si configura come un progetto piuttosto ambizioso: nella produzione furono coinvolti ben sei studi di animazione tra Giappone, Stati Uniti, Singapore e Corea del Sud, e il film si caratterizza per un’animazione sorprendentemente fluida e ben realizzata e alcuni interessanti spunti tratti dalla Divina Commedia originale, come l’apertura del film che in voice-over declama le prime terzine dell’Inferno, mentre altri passaggi del poema vengono proposti all’interno della sceneggiatura. La trama del film, che si basa essenzialmente sul viaggio di Dante attraverso l’Inferno disseminato dei corpi dei nemici che massacra lungo il cammino, deve molto alla sua origine videoludica, dal momento che ne mantiene la struttura narrativa divisa per livelli, ognuno dei quali coincidente con uno o più dei cerchi infernali e dominato da un “boss” che Dante deve eliminare per poter passare al successivo. Un progresso così meccanico della vicenda, funzionale in un videogioco, ma decisamente poco soddisfacente quando applicata ad un lungometraggio, viene parzialmente redento dall’intensivo uso dei flashback sul passato bellico di Dante, che ci mostrano una sua diversa discesa negli inferi, che si manifesta con gli abissi della sua anima. La caratteristica più evidente del film è il suo particolare stile grafico, che cambia più volte nel corso della narrazione. Dal momento che il lungometraggio è frutto di una cooperazione internazionale, ogni studio è stato lasciato libero di ideare un design autonomo sia dei personaggi che dell’ambientazione, rispettando solo alcune linee guida che ovviamente rimangono costanti in modo da dare comunque continuità alla storia; insieme alla rappresentazione dei personaggi, variano sensibilmente anche gli elementi grafici del film, come il tratto del disegno, le palette cromatiche, le ombreggiature e la fotografia, così da dare ad ogni segmento uno stile unico e molto personale.

6) Vampire Hunter D: Bloodlust. Nel 2000 Yoshiaki Kawajiri prende in mano il personaggio di D, il cacciatore di vampiri protagonista di una lunga serie di light novels e di un precedente lungometraggio animato riuscito solo a metà, sfruttandone appieno le enormi potenzialità; il risultato è un’opera decisamente maestosa e caratterizzata da un mix di influenze ardito ma di grande effetto. Il film è ambientato in un lontano futuro, in cui il soprannaturale convive con una tecnologia molto avanzata al servizio, però, di un umanità costretta a vivere in un nuovo feudalesimo. La trama prende avvio dall’interesse morboso di un nobile vampiro per una giovane ragazza, che viene rapita dal mostro; il nostro protagonista, il mezzo vampiro D, è quindi incaricato dalla famiglia della giovane di riportare sana e salva a casa, mentre sulla coppia di sfortunati amanti pesa un pericolo ancora più sinistro. Una trama dunque piuttosto lineare, che tuttavia evolve molto velocemente grazie ad una serie di colpi di scena che cambiano più volte le carte in tavola e la prospettiva da cui a noi spettatori è richiesto di osservare i protagonisti; il tutto è rappresentato attraverso un character design molto curato di ispirazione squisitamente preraffaelita, con atmosfere spettrali e gotiche, un’animazione decisamente fluida, una regia articolata e una colonna sonora magniloquente. L’inserimento dell’elemento gotico all’interno della cornice futuristica funziona alla perfezione, grazie all’atmosfera decadente che avvolge l’intero film, e trova spazio anche l’immaginario goth, associato alla figura dei vampiri nella cultura mainstream, grazie al personaggio di Carmilla, che evoca illustri predecessori. Al netto dei difetti, si tratta di un ottimo film che propone un’immagine innovativa e interessante dei vampiri, oltre che assolutamente suggestiva.

7) Blood-The Last Vampire. Restiamo in tema succhiasangue con questo breve lungometraggio firmato da Mamoru Oshii. Uscito nel 2000, il film segue le vicende di Saya, una giovane cacciatrice di vampiri, presumibilmente non-morta lei stessa, intenta a dare la caccia a queste creature all’interno dell’insolita ambientazione di una base militare americana in Giappone. I vampiri presenti in questo sanguinosissimo film rompono con la tradizione per fornirci una rappresentazione radicalmente diversa rispetto a quella cui siamo abituati: si tratta infatti di creature bestiali capaci di assumere un aspetto umano per passare inosservati ma obbligati a riprendere la loro forma mostruosa per nutrirsi. Blood è un grandioso film d’azione, che predilige i combattimenti all’analisi dei personaggi e la violenza ai dialoghi. La trama estremamente lineare è poco più di un pretesto per mettere in scena i cruenti scontri tra la protagonista Saya e i mostri, che si risolvono sempre in sanguinosi sventramenti, dal momento che i vampiri muoiono solo in seguito ad una massiccia perdita di sangue, combattimenti esaltati da un’animazione molto fluida che permette una maggiore spettacolarizzazione delle battaglie. Punto debole del film è però la protagonista: Saya è una ragazza fredda e cinica, spietata sia con i mostri che con le persone, ma non ci viene fornito nessun elemento che giustifichi il suo carattere e nessun dettaglio del suo passato. Non ci viene concesso di conoscerla né di simpatizzare con lei, anzi in più di una scena si è portati a provare maggiore empatia per i mostri che la ragazza uccide. Anche la sua natura rimane nell’ambiguità: per tutto il film viene suggerito che Saya sia “l’ultima degli originali “, senza specificare o approfondire questa affermazione. Al netto dei difetti, tuttavia, Blood ha il pregio di approcciarsi al tema dei vampiri in modo del tutto innovativo, rifiutando l’ormai stantia estetica gotica e la raffigurazione stereotipata del mostro per proporre al contrario un’idea diversa, in cui il focus si sposta su una protagonista che ha fatto della caccia al vampiro non un evento straordinario ma la sua professione, con tanto di superiori che la indirizzano e precisi modus operandi che danno corpo alla sua caccia; sicuramente una boccata di aria fresca in un sottogenere che rischia la ripetizione infinita degli stessi schemi narrativi e luoghi comuni simbolici e visivi.

8) Demon City Shinjuku. Di nuovo Yoshiaki Kawajiri, e di nuovo un’apocalittica battaglia tra uomini e mostri per il controllo del mondo, similmente a quanto raccontato in La città delle bestie incantatrici. Anche la mitologia del film è molto simile a quella di La città delle bestie incantatrici, al punto da poter essere considerati parte dello stesso universo narrativo. Le figure dei mostri ricorrono da un film all’altro, con mutazioni fisiche molto simili ed elementi ricorrenti, come i tentacoli o le creature aracnoformi. Perfino la struttura narrativa procede in modo analogo, molto lineare e scandito dai combattimenti dei protagonisti contro i vari nemici che di volta in volta si trovano ad affrontare, un meccanismo già collaudato nel film precedente e che si ritrova anche in Vampire Hunter D – Bloodlust. Il combattimento all’arma bianca contro i mostri viene declinato in questo film seguendo l’archetipo del viaggio dell’eroe, il percorso ideale e iniziatico che il protagonista deve intraprendere per compiere il suo destino e realizzare il suo potenziale, scoprendo il suo posto nel mondo. Kyoya, in questo caso, si trova ad addentrarsi sempre più profondamente nelle viscere di Shinjuku alla ricerca del malvagio Rebi Ra, sconfiggendo i diversi nemici che incontra lungo il cammino grazie anche all’aiuto dei diversi alleati che trova: l’horror si tinge quindi di fiabesco nella struttura narrativa, semplificando ulteriormente un’opera già modesta e di scarsa inventiva.

9) We Are The Strange. Ci addentriamo, con questo film e il successivo, all’interno dell’animazione indipendente e sperimentale, popolato da film realizzati da singole personalità in totale autonomia grazie a software per l’animazione a passo uno sempre più economici e accessibili, privi del supporto economico e commerciale della grande produzione e distribuiti principalmente attraverso il circuito indipendente e dei festival. We Are The Strange è un film del 2007 interamente realizzato da M dot Strange, pseudonimo di Michael Belmont; tutti i suoi film sono realizzati unendo animazione in stop-motion, grafica computerizzata e green screen, dando vita a mondi da incubo coloratissimi e allucinanti, con personaggi simili a marionette che agiscono con movimenti meccanici e un’espressione facciale fissa, lasciando allo spettatore il compito di immaginare le loro emozioni in base ai dialoghi, come giocattoli manipolati da un bambino per mettere in scena una storia. Gli spunti narrativi dietro ai film appaiono molto blandi e lineari, quasi dei pretesti per creare dei mondi immaginari caratterizzati da una grandissima quantità di ambientazioni molto diverse l’una dall’altra e ricchissime di dettagli, sebbene abbiano tutti in comune la desolazione dell’atmosfera, mortifera e apocalittica. Tutto appare morto, o morente, e i personaggi sono sempre in lotta contro forze sovrumane incarnate in antagonisti perversi e inquietanti a capo di sterminati eserciti di esseri mostruosi. Piuttosto che raccontare una storia, M dot Strange sembra voler dare corpo ad un’inquietudine senza speranza, alla solitudine disperata e a una lotta individuale impossibile ma incessante. Sogno e allucinazione si combinano per cercare l’orrore nel mondo reale, che viene trasfigurato nelle atmosfere di volta in volta cupe o variopinte di questi film, che materializzano l’angoscia del vivere e del sopravvivere.

10) When Black Birds Fly. Un’estetica molto simile, ma portata ancora più all’estremo, è quella che dà vita a questo recentissimo film di Jimmy ScreamerClauz, pseudonimo di Jimmy Klaus, un’opera che non mi sento di consigliare a scatola chiusa a chiunque per la sua natura eccezionalmente disturbante. Allucinatorio e destabilizzante nelle immagini e controverso nei contenuti, il film è un provocatorio manifesto nei confronti dell’oppressione politica e religiosa raccontata attraverso la metafora, abusata, per la verità, di un paradiso perduto celato agli uomini da un muro reso invalicabile da obblighi tradizionalmente tramandati e rafforzati da un imponente condizionamento mentale. Dichiaratamente ispirato dall’effetto di sostanze allucinogene, di cui il regista ha sempre apertamente ammesso di fare uso e che costituiscono il materiale di partenza usato per la sua creazione, il film è un viaggio insopportabile e terrificante negli abissi più profondi della realtà, un vortice di orrore che cattura lo spettatore privato di ogni punto di riferimento e trascinato dall’incalzare di una trama brutale e di immagini da incubo, accompagnate da una colonna sonora che amplifica ulteriormente l’effetto estraniante. L’agghiacciante bianco e nero del mondo in cui si svolge il film si abbina ai colori psichedelici del terrificante Eden in cui è proibito avventurarsi, dove le forme si sciolgono e trasfigurano continuamente assumendo aspetti sempre più grotteschi e terrificanti, caratterizzati da una violenza estrema e insopportabile. La composizione delle inquadrature rigetta ogni tentativo di fotorealismo, abbracciando la propria natura artificiale attraverso una messa in scena apparentemente confusa ma opulenta e ricchissima di dettagli soprattutto nelle scene ambientate al di là del muro, dove la quantità di elementi che concorrono a comporre l’immagine è tale da saturare le percezioni dello spettatore, trascinato in un gorgo di colori e forme cangianti, prigioniero di un’incubo senza fine. Audace e sfrontato, When Black Birds Fly prende le distanze dalle mode hollywoodiane, adottando uno stile grafico assolutamente personale e perverso, che come una lente deformante rilegge il mondo alla luce della poetica e dell’estetica del suo autore, che riesce a costruire un discorso sorprendentemente lucido nonostante la follia delle immagini. La facilità con cui le persone sono manipolate dalle autorità politiche e religiose, il carattere relativo della verità, il rapporto tra il bene e il male, l’isolamento e il concetto di Utopia sono alcuni dei temi che il film riesce a toccare nello svolgere la sua trama, in uno shockante pellegrinaggio negli abissi dell’incubo che si trova sotto la patina sottilissima che sorregge la realtà.

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