Blade Runner 2049

Armati di pazienza e generi di conforto che qui si va per le lunghe.

Trent’anni dopo le vicende del primo film, i replicanti sono ancora impiegati come schiavi dalle persone nelle colonie extraterrestri. K è un agente di polizia replicante, un Blade Runner consapevole di esserlo e incaricato di ritirare vecchi modelli della sua specie. Durante una delle sue missioni, scopre che una replicante è riuscita a riprodursi: è l’inizio di una corsa disperata per ritrovare il misterioso, e impossibile, bambino che potrebbe, con la sua esistenza, distruggere il fragile equilibrio che mantiene l’ordine sulla Terra.

Dare un seguito ad un film diventato nel tempo un cult non è mai un’impresa semplice, anche, e soprattutto, per via delle aspettative generate nel pubblico e per il confronto che inevitabilmente si andrà a fare con l’opera originale. Denis Villeneuve dimostra come sia possibile creare un’opera assolutamente originale e personale pur rimanendo all’interno del solco disegnato trent’anni prima da Ridley Scott. Forte del suo talento e dell’indiscutibile carisma che permea ogni sua opera, Villeneuve prende dal film originale solo l’ambientazione di base (che rielabora liberamente) e qualche concetto fondamentale, riutilizzandoli a suo piacere per scrivere un nuovo capitolo di una eventuale saga, ma anche una personale lirica sull’umanità e l’alienazione sociale del Ventunesimo secolo.

Intendiamoci, ed è meglio dirlo subito a scanso di equivoci: Blade Runner 2049 non è un film perfetto. Ha tanti difetti quanti pregi, e nemmeno la confezione perfetta riesce a mascherarli in modo convincente. Tuttavia la bellezza delle immagini e la profondità dell’argomento che tenta, sebbene maldestramente, di portare avanti sono elementi innegabilmente riusciti che permettono al film di innalzarsi al di sopra del panorama fantascientifico contemporaneo, in quell’empireo che potrebbe condividere con capolavori come Interstellar di Nolan o Arrival, dello stesso Villeneuve.

Essere o non essere… umano?

Trent’anni fa, Blade Runner si poneva un quesito complesso, dietro alla storia apparentemente lineare di una caccia a quattro replicanti ribelli: cosa rende l’essere umano tale? La prospettiva scelta per osservare la questione era quella della morte: i replicanti arrivavano sulla Terra alla ricerca di una soluzione al loro precoce decadimento, scoprendo che, purtroppo, una tale cura non esisteva. Il punto della questione era questo: nel momento in cui un essere sintetico inizia ad accumulare ricordi ed esperienze che ne condizionano la personalità e il comportamento, e che rendono la sua individualità unica e irripetibile e, in quanto tale, da preservare il più possibile contro la morte, che finirebbe per eliminare non dei semplici dati ma una vita, anch’essa unica e irripetibile, qual è la differenza dagli esseri umani? Blade Runner 2049 recupera la questione e la osserva dalla prospettiva opposta, quella della nascita, giungendo ad un quesito straordinariamente simile: se l’essere umano è tale in quanto frutto di un concepimento biologico che, teoricamente, gli dona un’anima, nel momento in cui anche i replicanti si dimostrano in grado di moltiplicarsi allo stesso modo e non solo tramite la costruzione in catena di montaggio, dove si pone il confine tra biologico e sintetico? Di fronte al miracolo della vita che ora accomuna uomini e replicanti, su quale base si giustifica la differenza tra le due specie? Mettendo insieme le due prospettive si ottiene un interessante esame esistenzialista sull’essere umano, che problematizza la sua esistenza attraverso il confronto che una specie da lui creata fa con l’uomo; recuperando il sottotesto religioso del film originale, sarebbe come se l’uomo arrivasse a confrontarsi con Dio e scoprisse di essere fatto non solo effettivamente a sua immagine e somiglianza, ma anche della sua stessa sostanza: a quel punto, non sarebbe forse anche l’uomo Dio? O, al contrario, questa posizione verrebbe considerata una pericolosa bestemmia da eliminare? Questo è, secondo me, il punto di Blade Runner 2049, un argomento molto importante che non riesce, tuttavia, ad emergere come dovrebbe.

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I problemi principali del film sono due: la durata e la lentezza. Il film è eccessivamente lungo per la storia che effettivamente racconta, risultando in un’opera diluita che rischia in più momenti di perdere il suo mordente e il suo ritmo. E arriviamo al problema della lentezza. Se da un lato può essere considerata un pregio la natura contemplativa del film, che si sofferma per un tempo infinito sugli sconfinati panorami naturali e urbani in campo lungo immersi nella nebbia e nella notte, dall’altro assistere a lunghissime scene prive d’azione e dialogo diventa sempre più insostenibile man mano che il tempo passa. A peggiorare la situazione congiura il fatto che, alla conclusione del film, molti fili sono rimasti sciolti e non tutte le trame hanno ottenuto una conclusione soddisfacente, facendo sorgere un dubbio: è lecito allungare a dismisura un film se in definitiva non si completa il racconto della storia?

A questo punto ci si divide tra scuole di pensiero, tra chi professa la superiorità della forma sul contenuto e chi, al contrario, pensa che in un’opera di narrativa la storia abbia la stessa importanza del modo in cui viene raccontata. Io faccio parte del secondo gruppo, per cui non posso negare un certo fastidio per le sottotrame rimaste aperte e le questioni irrisolte che il film lascia in sospeso, perdendo diversi punti ai miei occhi.

Una forma impeccabile che non soddisfa le sue potenzialità.

Ciononostante, è innegabile che la forma del film sia superba. Le immagini sono bellissime, con dei colori eccezionali e una fotografia mozzafiato, che disegna ipnotici effetti luminosi all’interno delle scene e invade gli ambienti con violenza ma senza apparentemente illuminare alcunché, mentre la colonna sonora riprende alcune sonorità del film originale rimaneggiandole a modo suo per ottenere una partitura originale ma che evoca il sapore della fantascienza distopica anni Ottanta. Le scenografie sono meravigliose, e la scelta delle inquadrature non è mai meno che perfetta, con alcuni fotogrammi assimilabili, per composizione e colori, ad autentiche opere d’arte, grazie ad una regia non solo capace, ma guidata da una visione che si materializza immagine dopo immagine.

Peccato per la sceneggiatura, che fra tutti è forse l’elemento più bistrattato. I dialoghi non dimostrano mai una particolare ispirazione, se non per alcuni momenti aforismatici che, letti nel complesso della scrittura generale, fanno storcere un po’ il naso e danno l’impressione di una scorciatoia verso uno stile che vorrebbe essere aulico e profondo; purtroppo, non essendo l’intero copione del medesimo tono, il risultato è semplicemente bad writing. Non tutto è da buttare, ovviamente: siamo di fronte ad uno di quei casi in cui i singoli dialoghi sono scritti molto bene, con un’attenzione molto precisa alla caratterizzazione dei personaggi e alle situazioni in cui si trovano, ma che si perde nel momento in cui la prospettiva si allarga e bisogna dare un senso a tutto quanto avviene sullo schermo.

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Ottimo il cast, guidato da un Ryan Gosling più laconico che mai, con una recitazione sotto le righe che tuttavia ben si sposa con l’atmosfera contemplativa del film. Robin Wright conferma la sua passione per i ruoli di donne forti e controverse interpretando un ruolo che molto ha in comune con Claire Underwood di House of Cards, mentre Jared Leto è un villain carismatico e inquietante, che monopolizza la scena ma risulta, all’interno del film, tristemente sottoutilizzato. Menzione d’onore per Ana de Armas, che interpreta il software Joi, protagonista della migliore scena di effetti speciali: innamorata del protagonista, Joi paga una prostituta per fare l’amore con lui mentre si interfaccia con la donna, vivendo di riflesso l’amore di K.

Harrison Ford offre, come era prevedibile, un’ottima performance riportando sullo schermo uno dei suoi personaggi più famosi. Rick Deckard è invecchiato, è solo, pieno di nostalgia e terrorizzato dall’idea di essere trovato e ucciso da un Blade Runner come lui. Nel momento in cui K lo trova scopre un animale braccato e nascosto nella sua tana, spaventato dal mondo che lo circonda e incapace di affrontarlo di nuovo dopo aver perso la sua amata Rachel. Pur essendo un personaggio secondario, Deckard catalizza l’attenzione fin dal primo momento in cui appare sullo schermo, rivelandosi nei fatti un protagonista tanto quanto K nonostante appaia solo nella seconda parte del film.

Quindi proviamo a tirare le somme. Blade Runner 2049 è un film molto bello, sebbene non realizzi tutto il suo potenziale. Forma e sostanza non si armonizzano alla perfezione, rivelando lacune sia nell’uno che nell’altro; se però il contenitore viene comunque promosso a pieni voti, il contenuto non si rivela sempre all’altezza suggerendo una serie di questioni e tematiche troppo spesso non sviluppati fino in fondo. L’obiettivo di portare avanti l’eredità del cult del 1982 può comunque dirsi riuscito, nonostante i difetti, e l’attesa rimane altissima per un eventuale ulteriore seguito.