House of Cards – Season 5 (in cui mi perdo via in considerazioni filosofiche di dubbia pertinenza)

Attenzione: allarme spoiler! Se non hai visto tutta la quinta stagione di House of Cards non puoi leggere questo post!

Generalmente io odio il modello Netflix. Intendiamoci, producono alcune delle migliori serie tv attualmente disponibili, ma per uno fisicamente incapace di sostenere una maratona televisiva (o fare bingewatching, come oggi si usa dire), trovarsi 13 nuovi episodi tra capo e collo diventa problematico: l’ansia da prestazione galoppa, mentre ti si ingolfa la lista di cose da vedere e si accumulano arretrati su arretrati. Ecco, questo discorso, con House of Cards, non vale: non so perché, ma questa è l’unica serie di cui riesco a divorare gli episodi nel giro di pochissimo tempo.

Per me, questa quinta stagione iniziava con aspettative enormi. La quarta annata era stata eccezionale, e il cliffhanger finale aveva lasciato presagire un continuo ancora più succulento; sono felice di poter affermare che la promessa è stata mantenuta, e che la quinta stagione è, forse, ancora migliore della precedente.

Avevamo lasciato gli Underwood in piena campagna elettorale, minacciati dall’inchiesta di Hammerschmidt e dall’ombra del terrorismo. Nel monologo che chiudeva la stagione, in cui per la prima volta era coinvolta anche Claire, Frank stabiliva i suoi progetti di creare e sfruttare il terrore per i propri scopi, e la quest’anno la serie riprende mettendo in atto questa promessa: Frank e Claire ricorrono ad ogni inganno, manipolazione, broglio e macchinazione per vincere le elezioni presidenziali, sconfiggendo il repubblicano Conway, incapace di rispondere agli Underwood con la stessa moneta per mancanza di mezzi e carattere.

E’ una stagione molto cupa, questa, se possibile ancora più cinica delle precedenti, e la fotografia segue questo percorso adottando molto spesso toni decisamente scuri e ambientazioni buie, come nella premiere. La distinzione tra giocatori e pedine si fa sempre più sfumata, e non sempre risulta chiaro chi sia a dettare le regole della partita. Se è vero che Frank e Claire mantengono sempre una posizione strategicamente forte, tuttavia si allunga su di loro l’ombra di altre personalità meno appariscenti ma ugualmente determinate a ottenere il potere all’interno dell’ambiente politico, personaggi ambigui che sembrano iniziare lentamente a manipolare la coppia.

La rivoluzione più evidente nei rapporti di forza tra i personaggi è però evidentemente quella tra Frank e Claire. Il colpo di scena finale che porta Claire ad assumere la presidenza non è arrivato proprio a ciel sereno: era evidente fin dall’anno scorso che la direzione fosse questa, e il problema era solo come arrivarci. L’inversione di ruoli tra la coppia ha determinato un radicale cambiamento nei rapporti di potere tra i due. Claire detiene ora il potere, e non esita a estromettere il marito dagli affari della Casa Bianca, così come Frank aveva sempre fatto con lei. Come già ampiamente dimostrato nelle scorse stagioni, i due protagonisti sono troppo simili per poter convivere pacificamente allo stesso livello; uno dei due deve necessariamente essere in una posizione subalterna per permettere all’altro di prevalere, e sarà interessante, l’anno prossimo, vedere Claire tenere il coltello dalla parte del manico contro suo marito, minacciato dalla spada di Damocle del perdono presidenziale ancora da ottenere. Come dice Claire nella bellissima scena finale ora è il suo turno, e chi si aspettava da lei un comportamento più moderato rispetto a Frank dovrà rivedere i propri piani.

La perdita di centralità di Frank è simboleggiata anche dall’uso dell’escamotage degli a parte, i momenti in cui l’azione si congela e il protagonista si rivolge direttamente al pubblico guardandolo negli occhi. Da sempre tratto distintivo di House of Cards, che inizia proprio in questo modo, rompendo la principale convenzione cinematografica con un monologo di Frank, le calcolate rotture della quarta parete sono sempre state il mezzo privilegiato per leggere nella mente del protagonista, un uomo subdolo e bugiardo che solo in questi momenti rivela la verità su di sé e riguardo i suoi piani; da questo momento, gli a parte diventano qualcosa di più, un modo per seguire il passaggio del potere da un personaggio all’altro e stabilire, forse con certezza, chi sia attualmente a giocare davvero la partita. Non è un caso forse che la prima volta in cui qualcuno (Claire) ha partecipato ad un monologo di Frank, anche solo con lo sguardo, sia stato alla fine della quarta stagione, il momento in cui si inizia a delineare il piano che si è sviluppato quest’anno, e che in questa stagione gli a parte siano stati protagonisti di diversi momenti memorabili, dal saluto in camera di Usher durante il giuramento di Frank al primo dialogo di Claire con lo spettatore, in cui afferma di essere sempre stata consapevole della nostra presenza, per chiudere con la superba scena finale che con due sole parole chiarisce quanto radicalmente siano cambiate le carte in tavola.

Ad un livello più filosofico, l’evoluzione degli a parte apre coraggiosi interrogativi sulla natura dello show, sull’idea di realtà del mondo messo in scena e sul ruolo dello spettatore all’interno della storia raccontata. Nel momento in cui il personaggio non si rivolge al pubblico solo per ragionare tra sé e sé, come parlando da solo per schiarirsi le idee, ma lo interpella direttamente e ne chiama in causa la presenza fisica come qualcosa di percepibile all’interno della finzione, i concetti di reale e di finzione finiscono per sovrapporsi l’uno sull’altro aumentando i livelli di lettura della serie. Fino a che punto si spinge la finzione scenica? Sembrerebbe che i personaggi, o almeno alcuni di loro, siano consapevoli dell’esistenza di un livello superiore di realtà che trascende il mondo in cui si muovono. Stanno quindi fingendo? Sono consapevoli di non essere persone reali ma solo personaggi in un dramma, di essere, oltre a “folli che guidano dei ciechi”, anche “un povero attore che incede e si agita sul palcoscenico, e poi non lo si sente più”? Sarebbe quantomai ironico che Frank e Claire, abituati a manipolare le persone, fossero consapevoli di essere solo pedine nelle mani di sceneggiatori e registi, dotati del potere di farli muovere e parlare a proprio piacimento. Ma nel momento in cui un personaggio palesa la sua consapevolezza dell’esistenza di un mondo altro all’infuori del suo che ne è della storia raccontata? E che ruolo ha in tutto questo lo spettatore? Ora che siamo interpellati in maniera sempre più complessa per costruire un senso alla storia come dobbiamo interpretare questa evoluzione? Apparentemente, nulla sembra essere cambiato, eppure la percezione della serie e dei suoi personaggi è ora radicalmente diversa, e la sospensione dell’incredulità è sempre più massicciamente messa in discussione non dalle regole della narrativa ma da quelle della cinematografia. Dobbiamo interpretare House of Cards come un racconto realistico sul mondo della politica o come una metafora ancora più ampia sul concetto di realtà e di personaggio? Ecco, sono questi gli interrogativi più pressanti che mi ha suscitato la quinta stagione di House of Cards, domande che nemmeno Westworld mi ha spinto a pormi sebbene fosse molto più esplicitamente incentrato su questi argomenti.

Tornando alla serie, il comparto tecnico è ancora una volta stupefacente. Le sceneggiature sono eccellenti, con tantissimi momenti memorabili e porzioni di copione che manifestano un’intelligenza e un’acutezza di analisi senza pari. La regia mantiene lo stile tipico della serie, con le inquadrature all’interno della Casa Bianca perfettamente simmetriche e bilanciate, fisse o molto lente e misurate nei movimenti di camera, come a voler rappresentare il mondo immune ai cambiamenti e chiuso in sé stesso, quasi autoreferenziale, in cui è ambientata la storia. Accanto a tanta cura nella messa in scena risaltano ancora di più i piccoli, ma moltissimi, errori di continuity tra un’inquadratura e l’altra, sbavature all’interno di una composizione altrimenti perfetta. 

Il cast è meraviglioso, perfetto fino all’ultima comparsa. Kevin Spacey e Robin Wright sono sensazionali, ormai legati da una chimica sul set quasi palpabile, capaci di trasmettere tutto un mondo di significati semplicemente con uno sguardo. Soprattutto Robin Wright è per me una sorpresa, dal momento che ho iniziato ad apprezzarla davvero come attrice solo con questa serie.

House of Cards è ancora una delle mie serie preferite, sempre in crescendo man mano che si susseguono le stagioni e la storia evolve. Se non l’hai ancora visto, metti in pausa la tua vita e guarda House of Cards, perché ti assicuro che dopo sarai una persona diversa.

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