Film Dicembre 2016

Arriva il momento in cui bisogna scendere a patti con la realtà e ammettere i propri limiti: non ho il tempo per scrivere come vorrei di tutto quello che vedo, e visto che Dicembre è stato un mese denso di novità, al cinema e in televisione, e il tempo a mia disposizione per scriverne è sempre meno, ho dovuto fare una corposa sintesi.

Non è un sistema che amo, trovo che funzioni piuttosto bene per le Top Ten (che se hai perso trovi QUI e QUI), ma non mi soddisfa più di tanto se devo parlare di una novità; avrei avuto molto altro da dire su Miss Peregrine, ad esempio, mentre Captain Fantastic o E’ solo la fine del mondo avrebbero meritato una analisi più approfondita, m, ehi, siamo tutti umani alla fine dei conti. Per questo motivo mi accontento di condensare in poche righe il mio giudizio personale su questi cinque film, tutti piuttosto positivi, sperando in futuro di poter tornare a scrivere di film in maniera più sostanziosa.

Cominciamo!

Free State of Jones. Basato sulla storia vera di Newton Knight, Free State of Jones racconta l’inizio del lungo ed accidentato percorso della comunità nera americana per l’ottenimento dei diritti civili. Pubblicizzato dai trailer come un film d’azione o di guerra, è in realtà un’opera molto lenta e riflessiva, che si fonda più sui personaggi, sui loro desideri e i loro rapporti piuttosto che sulla violenza degli scontri fisici, dosati lungo la trama in modo che ognuno di loro risulti significativo e abbia ancora più impatto sullo spettatore. Mette in scena l’epicità della resistenza ad un ordine che non viene più avvertito come legittimo, la presa di posizione degli ultimi che trovano una ragione comune per alzare la testa e lottare contro un nemico comune e per un valore condiviso. E’ un film molto amaro nella disillusione di fondo che lega tutte le vicende: la delusione degli ex schiavi nel notare che nulla è davvero cambiato dopo la guerra riecheggia nelle scene ambientate diversi decenni dopo, quando un discendente di Knight viene processato per avere, lui geneticamente di razza mista, sposato una donna bianca. Matthew McCounaghey dona tutto sé stesso per interpretare il protagonista del film, un ruolo comunque molto lineare e decisamente meno controverso di quelli cui l’attore ci ha abituati, al cinema e in televisione. Spiccano le bellissime ambientazioni, con paesaggi stupefacenti come la grande palude della prima parte del film, mentre il ritmo molto lento e la sceneggiatura non sempre capace di trovare lo spunto migliore indeboliscono il film e lo privano del mordente che avrebbe potuto avere.

Animali notturni. Con Animali notturni Tom Ford, già affermato stilista, si conferma una solida voce anche panorama cinematografico, dopo aver debuttato nel 2009 con A single man. Animali notturni è la spietata storia di Susan, gallerista insoddisfatta che ha occasione di rivedere le scelte della propria vita nel momento in cui l’ex marito le invia il manoscritto di un romanzo, dedicato a lei. E’ un film che non risparmia alcun tipo di violenza, emotiva e fisica: se la storia all’interno del romanzo è una brutale storia in cui un’innocente famiglia subisce la furia immotivata di tre individui a caccia di qualcuno su cui scatenare la propria cattiveria, la vicenda di Susan, rievocata tramite flashback, si fonda sull’aggressività emotiva e psicologica che i personaggi si riversano l’uno sull’altro, sfogando la propria rabbia repressa sfruttando pretestuosi incomprensioni o malintesi. Queste diverse linee narrative dipendenti e intrecciate l’una con l’altra danno vita ad un film in certi punti difficile da sopportare, rincarando la dose di scena in scena senza un attimo di tregua o di sollievo. La sceneggiatura, firmata dallo stesso Ford, compie un lavoro eccezionale, soprattutto nel mostrare l’autoconsapevolezza della protagonista sui suoi errori e le occasioni sprecate. Per la prima volta non abbiamo una protagonista convinta di avere ragione, ma un personaggio consapevole dei suoi sbagli e disposta ad ammetterli; questo aspetto è amplificato dall’ottima recitazione degli attori, con a capo una glaciale Amy Adams e un tormentato Jake Gyllenhaal. Il film si divide anche stilisticamente in due parti: la storia di Susan è raccontata con inquadrature perfettamente bilanciate ed equilibrate come cartelloni pubblicitari su cui dominano i copri e volti bellissimi degli attori, mentre la storia del romanzo prende forma con uno stile molto più sporco, la patina di glamour cade e rivela l’orrore che si cela sotto l’uomo – e, indirettamente, sotto Susan.

Captain Fantastic. Scritto e diretto da Matt Ross, Captain Fantastic racconta la storia di Ben Cash e del suo “esperimento sociologico” consistente nel crescere i suoi figli lontano dalla civiltà, nei boschi, procurandosi il necessario per sopravvivere dalla natura e istruendoli attraverso un suo particolare metodo di apprendimento. Il suicidio della moglie è l’occasione per la famiglia di confrontarsi per la prima volta con il mondo al di fuori della loro piccola comunità, con risultati devastanti. Captain Fantastic è un film che si presta sicuramente a diverse interpretazioni e si presenta come un’opera decisamente controversa. La comunità famigliare dei Cash stessa ha un doppio volto, di utopia illuminata e di estremo rigore autoritario, dal momento che nulla viene detto o fatto che non sia esplicitamente approvato dal padre o incoraggiato dal padre; i comportamenti stessi inculcati ai figli, inoltre, presentano diversi gradi di antisocialità e violenza. Il copione permette piuttosto bene a tutte queste contraddizioni di emergere, sebbene trascuri in maniera imperdonabile di sviluppare i personaggi delle sue ragazze, che risultano molto meno interessanti e riuscite dei fratelli, e risolva alcuni conflitti in maniera eccessivamente sbrigativa, soprattutto nella prima parte del film. Viggo Mortensen offre un’interpretazione eccezionale, viscerale nelle scene più intime, come il pianto silenzioso dopo aver abbandonato la prole, e giustamente sopra le righe nei momenti in cui usa il proprio anticonformismo come scudo contro il mondo; il cast di supporto è ugualmente ispirato, a partire da Frank Langella, che dà corpo in pochissime scene ad un personaggio meravigliosamente tridimensionale e interessante, fino ai giovani attori che interpretano i figli di Ben, ognuno perfettamente calato nel ruolo. Anche in questo caso spiccano le stupefacenti ambientazioni naturali, estremamente varie e suggestive, e i costumi, di un’originalità imprevedibile.

Miss Peregrine’s home for peculiar children. Il ritorno in grande stile del Tim Burton che tutti amiamo avviene con una classica storia fantasy debitrice per molti versi a molte e diverse opere precedenti, come la saga di X-Men. La storia, tratta dal romanzo omonimo di Ransom Riggs, racconta del piccolo Jake, che seguendo gli indizi sparsi nei racconti fantastici del nonno raggiunge una casa che ospita bambini dotati di inquietanti poteri situata all’interno di un loop temporale creato da Miss Peregrine. Miss Peregrine riunisce quasi tutti i topoi della cinematografia di Tim Burton, soprattutto la scelta di avere come protagonisti gli ultimi, gli emarginati, freaks e mostri che rivelano sempre una grandissima umanità sotto la facciata soprannaturale. Eva Green presta il volto ad un personaggio bellissimo, conferendole una sfumatura inquietante che rende Miss Peregrine molto difficile da inquadrare completamente: madre e istitutrice, governante e carceriera, dolcissima e letale, Miss Peregrine presenta moltissimi aspetti diversissimi che emergono però in maniera forse eccessivamente esplicita e indipendente l’uno con l’altro anziché convivere e compenetrarsi. Allo stesso modo anche la casa in cui vivono i bambini presenta una doppia natura, di rifugio idilliaco e prigione eterna, un aspetto che non ha però il tempo di emergere come avrebbe dovuto. Ottimi gli effetti speciali, compresi i mostri che tanto poco mi avevano convinto nel trailer, perfetti spauracchi che perseguitano i bambini per mangiare loro gli occhi, una minaccia che si fonda più sul terrore che incutono che sull’effettiva forza delle creature, sconfitte piuttosto facilmente nel finale quando gli speciali uniscono i loro poteri. Proprio il finale è la parte più debole dell’intero film, troppo veloce e confusionario con diversi paradossi temporali lasciati in sospeso.

E’ solo la fine del mondo. Xavier Dolan è un giovane sadico che adora fare a pezzi emotivamente i suoi personaggi e i suoi spettatori. E’ solo la fine del mondo è la storia straziante di un giovane che dopo anni di separazione dalla sua famiglia torna a casa per annunciare la sua malattia ed imminente morte. Già dalla premessa è una storia che promette una grande sofferenza, e lo sviluppo della storia non fa altro che approfondire e amplificare i motivi di dolore tra i vari personaggi. E’ una storia molto brutale nella messa in scena di rapporti famigliari estremamente violenti, non c’è pietà, non c’è sollievo, soltanto un continuo e doloroso accanimento dell’uno contro l’altro. Allo stesso modo della sceneggiatura, anche le inquadrature sono studiate per avere il maggiore impatto sullo spettatore: dominano i primi e primissimi piani degli attori, spesso con una fotografia molto cupa che contrasta con la bellissima giornata estiva in cui avviene la storia. I volti contratti degli attori penetrano nel cuore ancora più dei dialoghi, quasi accessori: viene svelato molto poco dei personaggi o delle motivazioni che li hanno spinti nel punto in cui li troviamo, perfino il protagonista non parla, nono rivela quasi niente di sé stesso, mentre risaltano per eloquenza le sospensioni, i silenzi, gli sguardi e i piani d’ascolto. E’ una storia che parla di incapacità di comunicazione, di rancore e rapporti deviati, di odio represso e di affetto stanco, messa in scena da un cast splendido, con pochi attori e in poche location, quasi al risparmio, per togliere tutto tranne la forza dei personaggi e dei loro interpreti. Un’altra prova eccezionale di Xavier Dolan.

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