Big Mouth – Stagione 2

Questa serie è geniale. E potrei chiudere qui, invece di ammorbarti per qualche altro centinaio di parole ripetendo sempre questo medesimo concetto. Già l’anno scorso, Big Mouth si era fatto notare per la maniera dissacrante ma, a modo suo, dolce che ha avuto nel raccontare l’adolescenza e tutto il carico di orrore che si riversa sulle nostre spalle nel momento in cui spunta il primo pelo o versiamo le prime gocce di sangue. La seconda stagione si spinge ancora oltre, cambiando notevolmente il tono della narrazione e facendosi più psicologica e meno fisica, leggermente meno grottesca della prima ma non per questo meno interessante o divertente.

Se la prima stagione era dedicata alla scoperta della pubertà e di tutti i suoi talvolta repellenti segreti, la seconda stagione è dedicata a esplorare il lato più mentale dell’adolescenza, dando voce agli impietosi giudizi che diamo a noi stessi e agli altri nel momento in cui non riusciamo più a capire bene chi siamo e cosa stiamo diventando. Ancora una volta, come nella prima stagione, il rischio di riportare alla memoria ricordi sepolti è dietro l’angolo, dal momento che vengono messe in scena dinamiche e problematiche assolutamente senza tempo, e attraverso i quali tutti siamo passati, tra cui la domanda suprema: cosa pensano gli altri di me? Ci troviamo di fronte a una serie di storie che si concentrano meno sul lato fisico del cambiamento e di più su quello psicologico, talvolta usando il sesso, o i suoi surrogati, come punto di partenza per mettere in scena il tormento su cui si arrovellano i personaggi per tutta la stagione, un discorso molto ben articolato che si fonda sull’introduzione di un personaggio geniale, lo Shame Wizard.

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Come nella prima stagione gli Hormone Monsters avevano guidato i personaggi lungo la scoperta della loro nuova fisicità, lo Shame Wizard impone ai bambini un durissimo confronto con sé stessi per giudicare quello che stanno facendo e, soprattutto, quello che sono, in un percorso talvolta doloroso che però ha il merito di alzare ulteriormente il livello della narrazione, se non sempre quello della comicità. Cambiando l’argomento e la prospettiva da cui l’adolescenza è esplorata, infatti, anche il tono della serie è diverso, diventando decisamente più drammatico: si ride un po’ meno e si riflette di più, grazie a un cast talmente ampio da poter comprendere a 360 gradi tutti i tipi di ingiusto giudizio che tutti quanti abbiamo subito o praticato almeno una volta nella vita. Nick ha vergogna del suo corpo ancora troppo infantile, Andrew ha paura di essere giudicato per i suoi impulsi sessuali incontrollabili, Jessi è dilaniata da un senso di colpa sempre più profondo per la separazione dei suoi genitori, Missy si rende vittima di body shaming, Gina è vittima di slut shaming, Jay è sempre più confuso circa il suo orientamento sessuale, Matthew dimostra di non sentirsi accettato da nessuno nonostante abbia orgogliosamente accettato la sua omosessualità… insomma, ce n’è per tutti i gusti, e il talento degli sceneggiatori è quello di mettere in scena un discorso così ampio e variegato senza mai risultare confuso o approssimativo. Le sceneggiature sono sempre perfettamente bilanciate in modo che ogni personaggio abbia un adeguato spazio all’interno della storia per sviluppare il proprio arco narrativo, e il personaggio dello Shame Wizard, superbamente doppiato da David Thewilis, dona alla stagione una coesione altrimenti quasi impossibile da raggiungere.

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Se le storie dei ragazzi superano il livello già alto della prima stagione, gli adulti si confermano il punto debole del racconto. Come i bambini, anche loro cercano sempre di fare il loro meglio, ma non riescono a evitare di risultare repellenti, degli esseri umani spesso deprecabili che offrono davvero poca speranza nel caso dovessero rappresentare il punti di arrivo del processo che stanno attraversando Nick, Andrew e tutti gli altri. Tra tutti, Coach Steve è probabilmente il punto più basso della serie; lo confesso, a volte mi sono davvero sentito a disagio di fronte a lui come nemmeno i lunghi e ripetuti discorsi su masturbazione e sperma erano riusciti a fare. Coach Steve è un adulto che non è mai cresciuto, ma non in senso buono: ha un’innocenza che invece di ispirare simpatia suscita pietà e ribrezzo, almeno da parte mia, e dal momento che questo effetto non è dovuto alla sua storyline o evoluzione, come avviene per i bambini, ma per la sua caratterizzazione apparentemente immutabile, non riesce nemmeno a risultare particolarmente divertente. Sarebbe come ridere di un ritardato, magari lo fai, però poi ti senti in colpa. Eccolo, sento lo Shame Wizard che volteggia alle mie spalle!

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L’animazione è molto buona, fluida e dai colori brillanti. Il character design è ovviamente immutato, e per questo grottesco, e mi chiedo perché in questo periodo così tanta animazione di provenienza americana debba avere un tratto grafico così brutto, che evidenzia sistematicamente difetti fisici e tratti grossolani invece di avere un disegno che sia anche gradevole da vedere. Sicuramente l’intento è quello di aumentare l’effetto comico, ma spesso un design così grossolano finisce per respingermi e portarmi a vedere qualcosa che abbia almeno una vaga somiglianza con un essere umano, o che quantomeno rispetti le più elementari regole della prospettiva e delle proporzioni.

Al di là dei problemi che mi genera il design della serie, la seconda stagione di Big Mouth è un capolavoro, non ho paura di dirlo. Scritto in modo superbo, tratta un argomento molto delicato con onestà e franchezza, evitando paternalismi ma guardando il pubblico negli occhi come farebbe un fratello maggiore dicendo, fondamentalmente, che va tutto bene. Qualcosa che spesso fa bene sentirsi dire, soprattutto in momento di crisi dai quali sembra impossibile uscire indenni, come l’adolescenza.

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