I 15 anni de “Il Diavolo Veste Prada”

Compie quindici anni un film che personalmente ho sempre trovato delizioso, una commedia che non esito a inserire nella mia personale categoria di feed-good film: quei film che guardi per rilassarti, che ti fanno stare bene, che conosci a memoria e hanno l’effetto di una coperta di plaid mentre fuori fa freddo e piove. Il Diavolo Veste Prada è uno di quei film che riguardo sempre volentieri, magari non lo inserirei tra i capolavori fi ogni tempo dell’arte cinematografica – non lo è – ma mi diverte e credo che abbia da dire molto più di quello che generalmente gli viene riconosciuto: come spesso accade, anche in questo caso la commedia è l’arma più affilata per mettere in scena una feroce critica sociale e fare in modo che arrivi molto più a fondo di quanto potrebbe fare in un dramma. Vediamo come. 

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Protagonista del film è Andrea (Anne Hathaway), aspirante giornalista che si trova, per farsi le ossa, a lavorare come assistente della terribile Miranda Priestly (Meryl Streep), direttrice inflessibile ed esigente della rivista di moda Runway. Andrea si scontra fin dal primo giorno con un mondo, quello dell’alta moda, che non comprende e disprezza, ma il desiderio di riuscire e dimostrare il suo valore è alto e lentamente si lascia irretire, prima per calcolo e poi per autentica passione, dallo stile di vita delle sue colleghe, rappresentate dal personaggio di Emily (Emily Blunt). Solo alla fine, quando scopre il prezzo da pagare per una vita sotto i riflettori, mette in discussione la strada che ha intrapreso e ricorda quale fosse davvero il suo sogno.

Il Diavolo Veste Prada è un film facilmente sottovalutabile, secondo me, per via della leggerezza del suo tono e dell’ironia che caratterizza tutta la sceneggiatura. Il film è sicuramente una commedia, e anche una buona commedia, ma, come I Simpson ci hanno insegnato, attraverso la risata si può rendere digeribile tutto, anche la verità; e quella che Il Diavolo Veste Prada ci mette di fronte agli occhi è amara, crudele e, ancora oggi, tristemente attuale. Il mondo della moda, con le sue manie, la sue feroce gerarchia, i suoi rituali e gli idoli inattaccabili diventa al tempo stesso caricatura del mondo del lavoro e metafora di esso, uno specchio in cui la cultura del lavoro in una società capitalista, interessata soltanto al profitto, al risultato a tutti i costi, all’alienazione individuale a favore della crescita economica, può riflettersi e osservarsi in tutto il suo orrore. Non è difficile, oggi, leggendo sui giornali del duro scontro generazionale che sta infiammando il mondo del lavoro, ritrovare Andrea e Miranda nella tante, troppe storie di lavoratori sfruttati e angariati da padroni cinici e approfittatori che impongono ai loro sottoposti orari massacranti, compiti impossibili e ambienti di lavoro malsani con la promessa, raramente mantenuta, di un premio finale; è quello che succede, nel film, a Emily, tenuta al guinzaglio da Miranda con la promessa di andare a Parigi salvo poi vedersi negare la soddisfazione di anni di sacrifici nel momento in cui una collega più performante inizia a metterla in ombra. 

Miranda Priestly è ovviamente il fulcro di questa operazione. Elegante e raffinata, Miranda si è costruita un nome e una carriera nel mondo della moda gestendo con il pugno di ferro la redazione della sua rivista, squalo in un mondo di squali. La presentazione di Miranda, nel film, è semplicemente perfetta: di lei vediamo per prima cosa le scarpe, che marciano verso il palazzo mentre tutti le fanno largo e cedono il passaggio e negli uffici, in fretta e furia, le assistenti e le segretarie organizzano freneticamente lo spazio per farglielo trovare esattamente come piace a lei: impariamo a temerla prima ancora di vederla, e quando finalmente si palesa è comunque ancora in grado di sorprenderci con il tuo soffuso della voce ma le stoccate affilate a Emily e l’atteggiamento sbrigativo riservato a chi non ritiene all’altezza del suo tempo. Miranda è la rappresentazione perfetta di un boss tossico, capace di rendere malsano qualsiasi ambiente lavorativo: pretenziosa e sarcastica, Miranda coglie ogni occasione per sminuire i suoi dipendenti con una battuta beffarda o uno sguardo infuocato, e arriva a incoraggiare la competizione tra Emily e Andrea impedendo loro di stringere una vera e propria amicizia; anche il fatto di non voler chiamare Andrea con il suo nome, preferendo inizialmente riferirsi a lei come “Emily”, è una violenza psicologica non indifferente, dal momento che significa privare una persona della propria identità, negarle un’umanità e identificarla unicamente con il suo ruolo. 

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D’altra parte, e qui sta l’intelligenza della scrittura, Miranda è una persona non solo brava nel suo lavoro, ma addirittura una maestra nel suo campo: quando la vediamo lavorare, Miranda dimostra una competenza e conoscenze sbalorditive, rendendo chiaro che se è arrivata ai vertici del mondo della moda lo ha fatto grazie ai suoi meriti e alle sue capacità. Allo stesso modo Emily è spesso meschina con Andrea, ma non cerca mai di sabotarla e anzi, ogni volta che ne ha bisogno accorre in suo soccorso sebbene non sia tenuta a farlo e vada contro il suo interesse. Finezze di scrittura che rendono tridimensionali dei personaggi che altrimenti rischierebbero di risultare soltanto macchiette, tipi fissi da usare in una commedia usa e getta presto guardata e presto dimenticata; in questo modo, invece, i protagonisti del film riescono a risultare delle persone reali, e Il Diavolo Veste Prada un film ancora in grado di intrattenere e far riflettere a quindici anni dalla sua uscita. C’è però un corto circuito, in questa resa tridimensionale dei personaggi, ed è nella scena in cui Miranda confessa ad Andrea il suo imminente divorzio. Si tratta del momento di maggiore vulnerabilità di Miranda, quello in cui finalmente ne vediamo l’umanità e siamo portati a simpatizzare per lei dimenticando, per un momento che si tratta, a conti fatti, del villain della situazione. Ma siamo davvero sicuri di voler empatizzare con Miranda? La scena è fondamentale per costruire un personaggio, come appena detto, solido e tridimensionale, ma non bisogna perdere di vista che si tratta di una persona maligna e manipolatoria, arrogante e cinica, pretenziosa e vendicativa: Miranda è una persona tossica come ne esistono fin troppe nel mondo reale, e da queste persone è meglio fuggire il più velocemente possibile senza lasciarsi commuovere e rischiare di finire avvolti ancora di più nella loro rete. 

Al di là di queste riflessioni, comunque, Il Diavolo Veste Prada è una commedia, per cui prima di tutto, e soprattutto, si ride; non una risata fragorosa e liberatoria, certo, dal momento che si tratta di un film molto raffinato, ma l’ironia che caratterizza buona parte della sceneggiatura, ben bilanciata tra momenti leggeri e scene più intense, strappa ben più di un sorriso. Anne Hathaway, che con questo film ottiene finalmente la consacrazione definitiva, brilla in ogni sia scena e tiene perfettamente testa a Meryl Streep, costruendo un duo capace di riverberare a vicenda sull’una il talento dell’altra: le scene in cui le due attrici sono in scena e si confrontano sono sicuramente i momenti migliori del film, quelli dove sia la scrittura che la regia trovano il giusto passo sia nella commedia che nel dramma. I costumi sono bellissimi, la fotografia è sempre molto patinata sia per coerenza con il genere del film – difficilmente una commedia ha una fotografia molto scura o con aspri contrasti – sia per rappresentare anche visivamente il lussureggiante mondo dell’alta moda in cui si muovono i protagonisti, e il tutto riesce a dare un’impressione di eleganza e ricercatezza fin dalle prime scene, prima ancora di entrare fisicamente nel mondo di Runway.

The Devil Wears Prada – Women's Roles in the Workplace

Nato probabilmente come commedia per bacchettare la superficialità e la cattiveria intrinseca nel mondo della moda, Il Diavolo Veste Prada arriva, chissà quanto consapevolmente e volutamente, a osservare con sorprendente lucidità il mondo del lavoro e le sue dinamiche molto più profondamente di quanto ci si sarebbe aspettato, descrivendo con sinistra precisione i malsani rapporti dirigente – dipendente che caratterizzavano il mondo delle imprese nel 2006 e continuano a farlo nel 2021. Il film si fa portavoce, quindi, di una critica sociale ancora attualissima, che grazie alle solide performance delle attrici protagoniste e ai brillanti dialoghi del copione può arrivare davvero a chiunque per spargere i semi di un cambiamento in positivo che, si spera, possa giungere nel più breve tempo possibile. 

9 pensieri riguardo “I 15 anni de “Il Diavolo Veste Prada”

  1. Il diavolo veste Prada lanciò sia Anne Hathaway che Emily Blunt, ma quest’ultima ha saputo gestire molto meglio la popolarità derivata da quel film. La Hathaway infatti ha accettato dei copioni che sarebbero stati inadeguati anche come carta da culo, e così facendo si è distrutta la carriera. Continua a lavorare, ma le parti nei film da Oscar non gliele offriranno mai più.

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    1. La Hathaway ha vinto l’Oscar per Les Miserables, però in effetti ha fatto un sacco di film molto mainstream che le hanno dato la fama e l’affetto del pubblico ma poche cose davvero rilevanti artisticamente; è un peccato, perché oltre a essere incredibilmente bella per me è anche molto brava.
      Anche Emily Blunt ha scelto diversi copioni che onestamente userei solo come combustibile da caminetto, ma in qualche modo è riuscita a mantenere una credibilità maggiore – e mi fa piacere perché anche lei mi piace tantissimo.

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  2. P.S.: Molto acuta la tua osservazione per cui chiamare il personaggio di Anne Hathaway in modo volutamente sbagliato sia una sottile forma di tortura psicologica: ammetto che non ci avevo mai pensato.

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    1. E’ una cosa a cui ho pensato ieri nello scrivere l’articolo. Non ho rivisto il film per intero (l’ho visto talmente tante volte che lo conosco quasi a memoria), ma solo delle scene su youtube per “rientrare nel mood”, in un certo senso, e quella in cui Miranda la chiama Emily dopo che Andrea le ha esplicitamente ricordato il suo nome mi ha molto colpito in un modo che prima non aveva mai fatto: è una dimostrazione di potere e di superiorità, le sta dicendo che non ha nemmeno il valore sufficiente perché le sia riconosciuto il proprio nome. Mi ha messo davvero i brividi a pensare che, in altre forme e modi, cose del genere succedono veramente.

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  3. Visto tantissime volte, imparato quasi a memoria, eppure sempre un po’ amareggiata da quel finale in cui la protagonista vince tutto perchè si è conformata (soprattutto il fatto che tra un aperitivo e una cenetta a Parigi sia dimagrita, proprio come voleva Miranda, mi fa sempre arrabbiare, aggiungiamo pure che provo grande antipatia per Anne Hathaway). Però il film resta divertente, il personaggio di Miranda come dici tu è diventato iconico e qui ho scoperto la splendida e bravissima Emily Blunt.

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    1. Il percorso di Andrea è funzionale a quello che credo fosse il punto principale del film quanto è uscito, ossia criticare il mondo della moda con le sue perverse manie e contraddizioni; in questo modo il fatto che Andrea si conformasse era inevitabile, le serviva per accorgersi di non volere quello e ritornare al suo vero sogno il giornalismo. Se, poi, non fosse accaduto il film non sarebbe mai decollato!
      Invece a me ha sempre amareggiato il fatto di definire Anne Hathway “grassa” all’inizio del film quando evidentemente non lo è; questo secondo me rischiava di mandare un messaggio sbagliato.

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