The Fabelmans

Fresco fresco di Golden Globe e quindi lanciatissimo verso la prossima Award Season con una rincorsa che non può che farmi piacere, The Fabelmans è stato l’ultimo film che ho visto nel 2022 per cui mi sembra indovinato che sia anche il primo di cui parlo nel 2023. E’ uno di quei casi in cui sono andato in sala senza aspettarmi nulla in particolare, e nemmeno troppo convinto, a dire la verità: non ero particolarmente attratto dalla storia che il film avrebbe raccontato e la durata, sostenuta ma ormai considerabile standard, visto che sembra impensabile fare un film che duri meno di due ore, mi spaventava. Come spesso accade non avevo capito niente, e avrei dovuto fidarmi subito di Steven Spielberg, uno che ovviamente il cinema lo sa fare e che riuscirebbe a rendere magica, sognante e affascinante anche una scatola da scarpe, per come sa filmare bene lui.

Il film segue la crescita e la formazione di Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle), che a sei anni viene portato per la prima volta al cinema dai genitori Mitzi (Michelle Williams) e Burt (Paul Dano) rimanendo turbato dal film. Per riprenderlo da questa conturbante esperienza, la madre gli propone di esorcizzare la paura usando la cinepresa domestica del padre, dando inizio, inconsapevolmente, a una passione, per Sammy, che da semplice gioco diventerà molto preso un hobby e poi un progetto di vita. Contemporaneamente si svolge il dramma famigliare dei Fabelmans, costretti a cambiare più volte casa per seguire gli avanzamenti di carriera del padre e seguiti dalla presenza amorevole ma ambigua di Bennie (Seth Rogen), amico di famiglia – e non solo.

Arriva sempre, secondo me, un momento nella vita di una persona in cui non si tratta più di progettare cosa sarà la propria vita ma di analizzare che cosa è stata guardandosi alle spalle con la giusta dose di indulgenza e critica. Una persona normale potrebbe pensarci distrattamente guardando un album di fotografie (o, oggi, scorrendo la propria bacheca su Facebook), tirare un sospiro e magari raccontare ancora una volta un vecchio aneddoto che tutti conoscono a memoria ma nessuno ha il cuore di interrompere; se però sei Steven Spielberg da questa riflessione, da questo guardarsi alle spalle e dentro, nasce un film che riesce a essere, al tempo stesso, nostalgico e d’ispirazione, uno studiarsi e un raccontare sé stesso e la propria famiglia con un affetto e una meraviglia semplicemente commoventi. The Fabelmans è un film assolutamente affettuso, pieno di calore e gratitudine verso chiunque abbia accompagnato i passi del regista: è una dichiarazione d’amore che Spielberg rivolge ai propri genitori, alla propria famiglia e al suo pubblico, noi fedeli spettatori che l’abbiamo seguito per tanti decenni aiutandolo, nel nostro piccolo ruolo di consumatori, a rendere grande l’arte a cui ha dedicato la vita. Un riconoscimento, quello nei nostri confronti, che arriva forte e chiaro fin dal messaggio iniziale registrato da Spielberg in persona che ringrazia il pubblico per aver scelto di vedere il film in sala, permettendo all’arte cinematografica di continuare a vivere un giorno ancora nel luogo in cui può davvero essere il più grande spettacolo del mondo.

E sì, alla fine The Fabelmans è esattamente quello che ho descritto qui sopra, un rivedere la propria storia e la propria immagine ripercorrere quegli stessi passi che Spielberg ha mosso alcuni decenni fa e un raccontare ancora una volta storie già ben note (l’aneddoto finale del suo incontro con Ford, qui interpretato da David Lynch, lo conoscevo già e mi ha fatto molto sorridere, così come mi ha fatto ridere la macchina da presa che, sul finale, si muove bruscamente per spostare l’orizzonte) con solo un sottile strato di fiction a rendere più fluida la storia di una formazione a cui il regista infonde una generosissima dose della sua poetica. Spielberg si conferma, ancora una volta, il cultore di un cinema assolutamente sentimentale, esageratamente emotivo, anche parzialmente manipolatorio nel controllo totale che ha delle emozioni del suo pubblico, dimostrandosi, come sempre, un maestro nel saperle indirizzare dicendoti cosa devi provare e, soprattutto, quanto. E’ un patto che bisogna ancora una volta fare con Spielberg, entrare in sala e lasciare a lui il comando delle tue emozioni ben sapendo che, come spesso fa, prima ancora che una storia ti regalerà dei sentimenti, degli stati d’animo che ti accompagneranno per un sacco di tempo una volta uscito dalla sala; The Fabelmans è, in questo, un prototipo del cinema Spielberghiano, il paradigma di cosa significhi per lui fare un film e la dimostrazione di quanto la sua mano non abbia ancora perso il tocco che lo ha reso celebre e amato nel corso degli anni nonostante gli inevitabili inciampi e scivoloni che una carriera pluridecennale si porta dietro.

Appurato questo è inutile, credo, cercare in The Fabelmans qualcosa che sia oggettivo e obiettivo, perché non si troverà mai: la storia dei Fabelmans è riletta e interpretata attraverso un sacco di punti di vista parziali e soggettivi, ognuno dei quali impone la propria chiave di lettura alla vicenda assolutamente prosaica di una qualsiasi famiglia americana degli anni Sessanta. C’è, ovviamente, lo sguardo del regista, il narratore onniscente che interpreta quello che ha vissuto e gli dà una forma che sia comprensibile e accettabile, dissemina indizi e ripulisce il racconto non solo da tutto ciò che è superfluo, ma anche da tutto ciò che potrebbe mettere a rischio l’immagine che della sua famiglia vuole dare – un’immagine che, possiamo immaginare, sia molto vicina a quella che conserva lui nel cuore. C’è lo sguardo di Sammy, il protagonista, talmente giovane e talmente immerso nella propria vita da non riuscire a vedere chiaramente nemmeno quello che ha davanti agli occhi. Sammy è un narratore inaffidabile perché non capisce immediatamente quello che succede intorno a lui, non ha gli strumenti per interpretare quei segnali e quei discorsi che, invece, allo spettatore fanno immediatamente rizzare le orecchie, e parte del fascino del film è proprio vedere Sammy scendere a patti con l’imperfezione della sua famiglia e delle persone che la compongono, imparando ad amarle proprio per questo.

C’è, infine, l’occhio della macchina da presa, lo sguardo del cinema che osserva tutto e lo trasforma, lo rielabora, lo trasfigura o, al contrario, rivela verità fino a quel momento passate inosservate. Sammy non solo vive la sua vita, ma la reinterpreta continuamente attraverso la macchina da presa dandogli di volta in volta una forma più accettabile, più piacevole, più tollerabile: è attraverso lo sguardo della macchina da presa che gesti di disperazione, come il ballo estatico della madre davanti al falò, diventano momenti di struggente bellezza ed eleganza, ed è sempre attraverso la macchina da presa che Sammy riesce a nobilitare, inaspettatamente, la meschina figura del bullo della scuola, facendolo somigliare a un dio greco e, in questo modo, mettendo a nudo e fragilità che aveva nascosto fino a quel momento. Ma la macchina da presa è anche l’occhio impietoso che permettendo a Sammy di rivedere all’infinito brani della sua vita lo portano a conclusioni che non avrebbe mai immaginato: è alla moviola del montaggio che il ragazzo scopre il tradimento della madre facendo scorrere la pellicola avanti e indietro in modo quasi compulsivo, come a cercare tra quelle immagini le stesse rassicuranti bugie che stava imbastendo per la sua famiglia.

L’amore per il cinema e per il mestiere del fare cinema è il filo conduttore di tutto The Fabelmans, fin da quell’immagine già iconica in cui il piccolo Sammy guarda scorrere le immagini del proiettore sui palmi delle proprie mani con la meraviglia dipinta sul volto. Spielberg ci racconta e ci trasmette ancora una volta quella meraviglia come se fosse la prima volta mentre ci racconta le sue, di prime volte, delle esperienze del tutto individuali che però, grazie proprio alle potenzialità del cinema, diventano universali perché universali sono le emozioni che entrano in campo. Poco importa, allora, che il racconto di The Fabelmans sia effettivamente autobiografico o meno, se quella che vediamo è la verità oppure no: quello che importa è che si tratta della verità secondo Steven Spielberg e secondo il metro di giudizio per lui più importante, ossia quello dei sentimenti, della capacità di emozionarsi, della magia del saper incantare una platea di fronte a una storia ben narrata. Fin quando ci sarà anche un solo spettatore pronto a sedersi in sala e lasciarsi incantare e ingannare dalle immagini che scorrono davanti ai suoi occhi quella magia che ha nutrito Spielberg nel muovere i suoi primi passi sarà sempre ancora viva e vitale. E Spielberg sarà sempre lì a orchestrare l’illusione per noi.

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16 pensieri riguardo “The Fabelmans

  1. Ora ho capito il collegamento a Ghe Boys dei fratelli Howard! Saltano fuori biografie col focus su infanzia e adolescenza dappertutto in questi giorni…!

    Io Spielberg lo rispetto e ne adoro la prima parte della sua sconfinata produzione, ma questo ammetto che mi ispiri proprio poco… :–/

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  2. boh sarà che non ho mai avuto interesse di regia, ma il film non mi ha particolarmente colpito
    brava invece lei e il rapporto madre-figlio e di come lui capisca attraverso i filmati il rapporto platonico

    ma meh, visto di meglio durante l’anno

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  3. West Side Story ha incassato 76 milioni, The Fabelmans ne ha incassati 20. Questi dati possono apparire molto positivi o molto negativi a seconda dei punti di vista.
    Se li confrontiamo con altri film dello stesso tipo, sono dati molto positivi: infatti oggi il mercato è monopolizzato dai cinecomics (o comunque dai film ad alto tasso di spettacolarità, come Top Gun: Maverick e Avatar 2), e quindi se un film che non corrisponde a questo profilo incassa oltre 15 milioni di euro c’è da stappare lo spumante.
    Se invece confrontiamo l’incasso di questi 2 film con il budget che è stato necessario per realizzarli, allora sono dati molto negativi: infatti West Side Story è costato 100 milioni, e The Fabelmans 40. Ergo, Spielberg ha fatto bruciare decine di milioni di dollari a coloro che hanno investito nei suoi ultimi 2 film. Ed è soprattutto per questo che lo colpevolizzo: se sai che per il tuo film è assolutamente impossibile incassare grosse cifre, allora dovresti cercare di stare basso con il budget, per rispetto di chi ha investito i suoi soldi nel tuo progetto. Se invece pur di realizzare il film come piace a te ti metti a spendere e spandere fregandotene del fatto che non rientrerai mai delle spese, allora stai agendo in modo immorale e irresponsabile, a prescindere che il film venga fuori bello o brutto.
    Questo discorso vale soprattutto per The Fabelmans: infatti per West Side Story capisco che non fosse possibile risparmiare più di tanto (dato che il musical è di per sé un tipo di film costosissimo da realizzare), ma cavolo, almeno per un film a tematica familiare come The Fabelmans non era così impossibile spendere di meno. Storia di un matrimonio è un film sullo stesso genere, e ha avuto un budget di 18 milioni: se si fosse tenuto su quelle cifre Spielberg non solo sarebbe andato in pari con le spese di produzione, ma avrebbe perfino generato un piccolo attivo.
    Ricordati quel che ti dico: l’Academy cercherà di premiare il più possibile The Fabelmans. Lo dico perché i giurati dell’Academy sanno che dopo il secondo flop consecutivo Spielberg farà molta fatica a trovare un altro gonzo disposto a investire sul suo prossimo film, e quindi andranno sicuramente in soccorso del loro beniamino, nella speranza che ricoprendolo di Oscar il suo film possa raggranellare qualche milione di incasso in più.
    Una nota a margine: ho criticato Spielberg dal punto di vista umano, ma lo stimo molto dal punto di vista artistico.

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    1. Non credo che Spielberg temesse di incassare così poco, specialmente con West Side Story: lì, però, si è scatenato il solito circo che si apre a ogni remake che esce, per cui il pubblico si riscopre improvvisamente fan dell’originale, che diventa immancabilmente un capolavoro insuperabile, e schifa il nuovo film senza nemmeno dargli una possibilità anche quando, come in questo caso, si tratta davvero di un bel film.
      The Fabelmans forse era ancora più rischioso, e come ho scritto nemmeno io ero particolarmente convinto entrando in sala. Non credo avrebbe potuto fare come Storia di un Matrimonio perché sono due film molto diversi – e non sono nemmeno sicuro siano dello stesso genere: The Fabelmans, per me, è molto più ricco e interessante, anche registicamente, e lo sforzo, ovviamente, va pagato.
      C’è, piuttosto, da sollevare come sempre il problema della disaffezione al vedere il film in sala, per cui la gente non va più fisicamente al cinema ma aspetta che il film esca sulle piattaforme per vederlo a casa. E poi la gente non guarda più film, soprattutto tra i giovani è diventato molto raro trovare qualcuno che guardi lungometraggi con abitudine: se vedono che durano più di due ore nemmeno lo fanno partire, non hanno più la soglia dell’attenzione adeguata a seguire una narrazione così lunga. E’ insomma un problema enorme e molto complesso che ovviamente non so risolvere, ma la soluzione, per me, non può essere “facciamo solo film sicuri o a basso costo”. Bisogna, paradossalmente, rieducare il pubblico al cinema, ai tempi del cinema e ai riti del cinema, e andare fisicamente in sala è uno di questi.
      Sono sicuro che The Fabelmans vincerà molto agli Oscar (è il classico film che piace molto all’Academy), ma sono molto meno cinico e credo che vincerà perché li merita: secondo me, ripeto, è davvero un bel film, al di là del disastro al botteghino.

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      1. Sono totalmente d’accordo con te quando dici che i giovani (e gli adulti) non guardano più i film, perché preferiscono le serie tv. E infatti da tempo le sceneggiature migliori vengono tradotte in serie tv, e al cinema restano solo gli scarti. Grazie mille per questa risposta così stimolante e articolata! 🙂

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    1. Sicuramente non è un film che abbia l’intenzione di raccontare qualcosa di nuovo, e non lo fa. Penso però che qualsiasi esperienza quotidiana, raccontata per bene, possa comunque apparire interessante e coinvolgente, e per me questo lo ha fatto. Poi, come dicevo anche a Sam, a me piace come gira e come parla Spielberg, per cui ha avuto gioco facile con me.

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      1. Anche Michelle Yeoh lo meria. Ana de Armas boh, a me non piace per niente, ma non penso daranno l’oscar a un film tanto controverso in ogni caso.

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      2. L’ho vista davvero in poche cose (questo e Knives Out – e in Blade Runner 2049 non la ricordo) ma da quello che ho visto mi è piaciuta molto. Però sì, sono d’accordo: Blonde è troppo scomodo come film per dargli un premio (poi lasciamo stare che io l’abbia trovato sbagliato sotto tutti i punti di vista).
        Spero di riuscire a vedere al più presto Everything, Everywhere All at Once, sono sempre più curioso!

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