Nomadland è il grande favorito di questi Oscar, il film che ci si aspetti si porti a casa tutto dopo aver vinto anche il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia e aver fatto incetta di premi vari ovunque sia stato presentato. E ne avrebbe tutti i titoli: Nomadland è infatti un film bellissimo che per una volta giustifica tutto l’entusiasmo che si viene a creare, un’opera poetica e intima che ti lascia ipnotizzato di fronte allo schermo. Eppure… già, eppure. Non voglio fare il bastian contrario, e non lo farò, ma ci sono dei pensieri che mi sono nati guardando il film e, soprattutto, leggendo di come sia stato girato e come abbiano lavorato la regista Chloé Zhao e la star Frances McDormand, dei pensieri che se non compromettono il giudizio sul film quantomeno complicano la mia opinione sull’eticità di quanto fatto. Ma ci arriverò dopo.

Nomadland non ha una vera e propria storia, dal momento che si presenta più come uno spaccato di vita reale: guidati da Fern (Frances McDormand), avatar dello spettatore dentro il film, entriamo in contatto con la popolazione nomade degli Stati Uniti, uomini e donne, per lo più nella loro terza età, che a un certo punto hanno deciso di mollare tutto e iniziare a vivere su ruote mantenendosi con lavori stagionali rompendo tutte le catene immateriali che li costringevano in una vita che non potevano più mantenere. Fern, uno dei pochissimi personaggi di finzione, parte per la sua vita nomade in seguito a un doppio lutto, da un lato la morte del marito Bo e dall’altro la perdita della casa in quella che è diventata la città fantasma di Empire; il viaggio di Fern è rivolto quindi all’elaborazione di questo lutto e alla ricerca di un modo per liberarsi dagli spettri che la perseguitano nonostante tutti i chilometri che cerca di mettere tra di loro.
Potrebbe essere un paragone azzardato, ma Nomadland ha, secondo me, moltissimo in comune con Minari, primo tra tutto il suo non essere completamente narrativi quanto, piuttosto, degli slice of life, dei film che intendono immergerti in un’ambiente, in una comunità, e farti toccare con mano il modo in cui vivono le persone che ne fanno parte: se da un lato c’era la comunità di coreani immigrati negli Stati Uniti, qui ci troviamo a conoscere delle persone americane che si trovano, per volere o per forza, a dover scegliere uno stile di vita completamente diverso da quello che è genericamente identificato come American Dream. C’è poi la natura pionieristica dei protagonisti, che, scrivevo per Minari, rendeva quel film profondamente americano e che anche in Nomadland è identificata dalla sorella di Fern come l’essenza originale e fondativa di quel popolo, che nasce come nomade alla ventura; infine, ma non meno importante, c’è il tono del film, quello stile lirico e a tratti sognante in grado di rendere anche Nomadland una poesia per immagini grazie alla regia di Chloé Zhao e alla bellissima fotografia di Joshua James Richard.

Il ritratto della comunità di nomadi è sicuramente il punto principale del film, molto più della blanda linea narrativa di Fern. È evidente che prima delle riprese è stata fatta un’approfondita ricerca sul mondo del nomadismo, testimoniata anche dalla dedizione con cui Frances McDormand si è preparata al ruolo, vivendo per mesi sulla strada e svolgendo alcuni del lavori con cui Fern si mantiene nel corso del film. Un ritratto messo insieme con un taglio quasi antropologico, quindi, dal momento che l’osservatrice si mischia con la comunità che vuole osservare registrandone le storie, la “mitologia”, potremmo dire, e i comportamenti. Su tutto, il rapporto con il camper gioca un ruolo fondamentale, sia come mezzo fisico di trasporto che necessita di costante manutenzione sia come luogo emotivo su cui costruire la propria nuova vita, un oggetto talmente rivestito di speranze, ricordi e desideri che la sola idea di sostituirlo appare sacrilega. È bellissima, a questo proposito, l’osservazione che fa Fern all’inizio del film, quando afferma di non essere “homeless” ma semplicemente “houseless“: lei, come tutto il resto della comunità, ha rinunciato a un’abitazione in mattoni, ma non certo a una casa, che ha saputo ricostruire di volta in volta in ognuno dei luoghi che ha visitato con il suo furgone.
La scelta di non usare attori ma degli autentici nomadi riesce a dare un’autenticità del tutto speciale al film, ma proprio qui si collocano anche le obiezioni a cui accennavo all’inizio. La comunità si racconta attraverso le parole dei suoi membri stessi, che sono ripresi nell’atto di aprirsi gli uni agli altri sempre più profondamente, un po’ a causa della terrificante solitudine in cui sembrano vivere e un po’ per il genuino desiderio di narrare la propria storia per farsi conoscere e appropriarsene del tutto, mettendosi al centro di un racconto in cui in realtà, a conti fatti, svolgono il ruolo di vittime. Le storie raccontate dai vari personaggi sono tutte curiosamente coerenti l’una con le altre, tutte comprendono un evento drammatico che ha portato il protagonista di turno a decidere volontariamente di darsi a una vita di nomadismo dalla quale non tornerebbe mai indietro. Sono tutte piccole storie di rinascita, talmente simili tra loro da rendere però evidente il lavoro di selezione che è stato operato sul girato: il risultato è una visione magari non falsata del fenomeno, ma sicuramente parziale e che non tiene conto delle infinite sfaccettature che, come qualsiasi altro fenomeno umano, sicuramente ha. Mi è difficile credere, ad esempio, che tutti quanti abbiano preso così a cuor leggero la decisione di vivere per strada, e che nessuno tra coloro che hanno dovuto adattarsi a causa della crisi economica, come viene accennato a un certo punto, rimpianga la propria esistenza precedente. L’idea è che si sia scelto di presentare il fenomeno sotto una luce particolare che, però, finisce per edulcorare troppo una realtà che invece, da quello che ci viene mostrato, appare dura e implacabile, una vita in cui basta una gomma a terra nel momento sbagliato a fare la differenza tra la vita e la morte. Nomadland sembra voler dipingere a tutti i costi un quadro idilliaco di una realtà che non lo è affatto allontanando dalla scena tutti i suoi aspetti più crudi e drammatici perdendo però, contemporaneamente, anche il polso di ciò che vorrebbe raccontare.

A questo si aggiunge l’inconsapevolezza delle persone che hanno partecipato alle riprese del film. Come riporta anche IMDb, la maggior parte delle persone coinvolte non avevano idea di chi fosse Frances McDormand o che si stesse girando un film di fiction, e ad alcuni di loro è stato detto solo a riprese concluse; il mio dubbio, in questo caso, è puramente etico, e riguarda la possibilità di usare del materiale estorto con l’inganno a delle persone che si sono fidate ciecamente della donna che avevano davanti. Persone come Swankie o Bob Wells si aprono completamente con Fern davanti alle telecamere raccontando le proprie esperienze e i propri pensieri più intimi senza sapere che la donna di fronte a loro stava recitando un copione, rispondendo quindi alle loro confessioni con delle bugie confezionate da uno sceneggiatore. Con in mente questo fatto ascoltare i ricordi di Swankie e i suoi progetti per il suicidio o Bob rievocare la figura del figlio morto fa l’effetto di una violazione, soprattutto nel caso di Bob: come riporta anche IMDb, dopo la scena che li ha visti protagonisti è tornato a parlare con Frances McDormand per confidarle quanto gli avesse fatto piacere che si fosse confidata con lui, e in quel momento l’attrice gli avrebbe confessato la sua identità e la natura del film. Non credo che per Bob Welles tutto questo abbia potuto essere vissuto diversamente da un tradimento, soprattutto dopo la profondità delle tragedie che lui e Fern si confessano, con la differenza che la sua è autentica ma quella di Fern no; oltretutto cosa può aver pensato lui, fieramente anticapitalista come ci viene presentato nella sua prima scena, nel rendersi conto di essere stato coinvolto in un film finanziato da Hollywood? Sono pensieri che non possono non farmi considerare Nomadland un’operazione estremamente cinica e manipolatoria che arriva a sfruttare a proprio vantaggio anche la fragilità di persone che affrontano lutti, incertezze e perfino la prospettiva della loro morte, nel caso di Swankie, e se l’affetto verso di loro è palpabile grazie alla regia di Zhao, a posteriori non si può che rabbrividire di fronte alla freddezza di una regista che ha consapevolmente sfruttato a suo vantaggio la fiducia che queste persone hanno riposto in lei e nella McDormand.
Un’ombra che si staglia su un film per altri versi bellissimo. È sempre tutto estremamente delicato, estremamente intimo nella rappresentazione del dolore che Fern si porta dietro, un dolore che non ottiene un trattamento da melodramma ma viene vissuto nel silenzio, quasi in segreto, rendendolo così incredibilmente verosimile nel suo non poter essere espresso a parole ma solo vissuto. Nomadland è una storia di rinascita, di un ritorno alla vita che non si concretizza in una restaurazione dello status quo precedente al trauma, che sarebbe impossibile da avere, ma nella definizione di una vita diversa capace però di farti riscoprire la bellezza nascosta o troppo spesso trascurata del mondo. Viaggiando sul suo camper Fern conduce sicuramente una vita di disagi e incertezze, ma ha la possibilità di riscoprire un contatto quasi ancestrale con la natura che la civiltà ha in parte sopito, di toccare con mano le meraviglie del mondo vivendo con un ritmo più contemplativo e, infine, di raggiungere un nuovo livello di conoscenza di sé e di unione con le altre persone e il mondo che la circonda. Fern sceglie di vedere il meglio del mondo, di scoprirne la meraviglia ma senza mai ignorarne l’orrore o il dramma, abbracciandolo anzi con la sua abitudine a dare conforto e ascolto a chi sceglie di aprirsi con lei per raccontarle la propria drammatica storia, con la consapevolezza di fondo che tutti siamo sempre uniti e nessuno ci lascia mai davvero; al massimo, se ci si perde di vista, prima o poi ci si rivede lungo la strada.

Un messaggio molto commovente e liberatorio, quanto mai necessario in un periodo, come questo, in cui è fin troppo semplice sentirsi soli e isolati. Chloé Zaho ritrae proprio questo isolamento riuscendo però a non farlo diventare solitudine, i suoi personaggi sono “alone” ma non “lonely” proprio in virtù della profonda connessione spirituale che si viene a creare tra di loro e tra di loro e la natura che li circonda. Una natura che diventa spesso un personaggio a sé stante, protagonista silenzioso di inquadrature straordinarie in cui l’uso dei campi lunghi costruisce dei panorami sconfinati dai colori meravigliosi, una terra selvaggia che, nonostante il suo aspetto desertico, sembra invitarti a entrare e scoprirla, goderla, viverla davvero lasciandosi finalmente alle spalle gli ingombranti ricordi che finiscono per imprigionarci con le catene dell’amore e della memoria per assaporare il proprio presente e scorgere un nuovo futuro che ti aspetta.
Nomadland è candidato a sei Premi Oscar: Miglior film, Miglior regia, Miglior attrice protagonista, Miglior sceneggiatura non originale, Miglior fotografia e Miglior montaggio. Sono sicuro, e non credo di sorprendere nessuno, che sarà uno dei grandi protagonisti della serata, e che Chloé Zhao possa già contare sul fatto di avere la statuetta per la regia con il suo nome sopra. Mi piacerebbe davvero veder vincere anche Frances McDormand, che penso sia stata l’attrice giusta per il film giusto, ma ho idea che la sua vittoria per Tre Manifesti a Hebbing, Missouri sia ancora troppo recente per farle avere un altro premio; allo stesso modo credo di tifare anche per la Miglior fotografia, che ti lascia davvero senza fiato in questi panorami che sembrano andare avanti per sempre e di cui non sembra logico aspettarsi una fine.
mi sa di strano sto film
poi è strano anche che non la abbiano riconosciuta, non è la prima venuta
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Secondo me entra in gioco il fatto di non aspettarsi di vedere un’attrice hollywoodiana a vivere come una nomade, per cui magari, visto anche il trucco che ha nel film, se anche l’hanno riconosciuta potrebbero aver pensato a una semplice somiglianza.
Soprattutto, ora che ci penso, lei deve essere rimasta nel personaggio per tutto il tempo, per mantenere l’illusione con le persone intorno a lei; anche solo per questo il premio come Miglior Attrice lo meriterebbe davvero, secondo me.
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Hai ragione a sottolineare le contraddizioni di questo film così come la sua natura potenzialmente ingannevole, ma devo ammettere che mi ha conquistato. Non l’ho trovato una visione edulcorata degli Stati Uniti, anzi, se ne vede un lato ferito e molto diverso da ciò che mostra Hollywood di solito.
Comunque, per quanto ho letto, la storia di Bob Wells è 100% vera, ma quella di Swankie no… Cioè, credo sia ancora viva!
https://www.google.com/amp/s/www.latimes.com/entertainment-arts/movies/story/2021-02-25/nomadland-hulu-real-life-nomads%3f_amp=true
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Meno male! Ammetto che è una cosa che mi risolleva molto e mi rende meno complicato fare il tifo per il film alla premiazione.
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